Colori sbiaditi.
I bimbini giocano a rincorrersi sulla riva del lago durante
una bella giornata di Primavera.
Sul tavolo apparecchiato da pic nic, gli adulti fanno spazio
per porre sul piano una piccola tessera un po’ consunta sugli angoli.
Le pedine di legno, a forma di ometti tozzi e paffuti, hanno
perso il loro colore originale, e stanno un po’ mobili sul contapunti curvo
dall’umidità accumulata in tutti quegli anni.
I bambini raggiungono il tavolo, uno di questi ride, si
avvicina troppo all’obbiettivo e va fuori fuoco.
Si alternano scene di familiari attorno al tavolo che se la
ridono, bambini vocianti.
La camera si fissa sulla zia, che fa un dolce sorriso e s’imbarazza
davanti all’occhio dell’8 millimetri.
Proprio in questo momento la pellicola inizia a traballare.
Il cameraman fa qualche commento scherzoso alla zia, pone
qualche domanda, come in quelle interviste che facevano sulla vecchia RAI. E lei
risponde prendendo la scatola del gioco in preparazione, ridacchia imbarazzata,
si copre la faccia con il coperchio.
“Signorina, non s’imbarazzi! Come si divertono i giovani
d’oggi?”
Dalla scatola rispunta il viso grazioso della zia, cerca di
stare allo scherzo dell’improvvisato regista, che sarebbe, manco a dirlo, quel
bischero dello zio.
La zia risponde con tono sicuro e cantilena da valletta
televisiva:
“i giovani d’oggi si divertono con Carcassonne”.
Anacronismo is the new black.
Proprio come questo bel disco di Sufjan Stevens, “Carrie
& Lowell” che nel 2015 ti propone l’ennesima raccolta di musicarelli che,
fin dalla copertina, ti invita a tuffarti nel fantastico mondo della nostalgia,
ti sembra di trovarti in mezzo a una scenetta di quelle malinconiche dei
telefilm sentimentali, oppure ti immagini di essere sdraiato su un prato verde
accanto a una donzella, che ridete e guardate il cielo e il Dolly sale verso
l’alto.
Come in Inception, questo disco vorrebbe innestarti dei
ricordi di eventi che non hai mai vissuto, tristi o felici che siano,
introducendoti nelle orecchie chitarre arpeggiose, voci delicate, coretti
bucolici, banjos, pianoforti che fanno du’ note al posto giusto (qui c’è
l’insegnamento del grande Nick Drake, con l’album “Pink Moon”, che tutti
dovrebbero ascoltare in posizione fetale con gli occhi gonfi di lacrime).
Carcassonne fa la stessa cosa: sembra un gioco d’antan, che
ci giocavano i genitori da piccini, e sapeva di vecchio anche quasi 15 anni fa.
E forse sta qui il successo di Carcassonne, quando maneggi quelle tessere con i
paesaggi verdi e distesi, e i fiorellini, e le casette, ti sembra di vedere la
tua vecchia casa di campagna dall’alto, quando ti annoiavi d’estate in cascina,
facevi due tiri di pallone, o, come me, te ne stavi a terra a inventarti
giochini da tavolo per un giocatore, in cui il giocatore stesso vinceva e perdeva
contemporaneamente. Che bei tempi.
Carcassonne e “Carrie & Lowell” funzionano perché giocano
sull’effetto Ratatouille. Come il topolino dell’omonimo film, che grazie al suo
piatto semplice di verdure cotte va a toccare i neuroni sensibili del critico gastronomico,
anche i due gioiellini musicoludici proposti ti faranno rilasciare un po’ di
sana dopamina e ti faranno distendere i sensi, sempre con una punta di
malinconia.
Il nonno si mette le mani nei capelli, la zia indica i
fanciulli che esultano saltando e correndo attorno al tavolo.
Si avvicinano in massa davanti alla camera, tengono in mano
i puzzilli della vittoria, parlottano disordinatamente. La pellicola traballa sensibilmente,
fino a bruciarsi, e a lasciare uno schermo bianco accecante.Benedetto
Carcassonne, un gioco di Klaus-Jurgen Wrede per 2/5 giocatori |
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