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venerdì 5 dicembre 2014

"MIO CARO MAX... LAS VEGAS, UN'ESPEVIENZA POST MODEVNA CHE HA SEGNATO L'AVTE LUDICA DEL TEVZO MILLENNIO"


 
Philippe Daverio illuminaci tu! :)
Psss, Max..! Vieni un attimo qui.
Senti.... No, no ti volevo chiedere una cosa al volo, poi riprendiamo.
Sì, sììì, tutto bene, tutto bene.
Ti volevo solo chiedere: ma la rubrica sulla musica come va? Funziona? La gente è interessata? O non s’interessa? Il fatto è che per me è importante conciliare più visioni creative, mi sembra essenziale…
E’ sempre il solito discorso, Max. Cerco di dire a chi legge il blog che fare giochi e usufruirne è l’equivalente di fare musica e andare ai concerti, girare un film e andare al cinema, dipingere e scolpire e andare ai musei. E’ facile per noi, meno per tutti quelli che ci stanno intorno. Ma credo che debba venire dal giocatore e dall’autore, e dal blogger, insomma, da tutti quelli che girano nel nostro mondo… dicevo, deve venire da noi la diffusione di questo concetto.
Che l’esperienza ludica è artigianato, è arte, è emozione.
Ma come noi abbiamo piacere a nutrirci di tutto questo, dovremmo anche avere piacere a “spaziare” verso altri mondi creativi.
Insomma, è una forma di “do ut des”. Se ti chiudi a fare giochi, non crei quel circolo virtuoso fra esperienze creative diverse. Fra diversi modi di usufruire delle arti.
Perché un regista, uno stilista, un produttore di elettronica, dovrebbero affacciarsi al mondo del gioco, se non c’è “stima” da parte di chi invece ne usufruisce?
Non so se ti è chiaro.
Il problema del gioco da tavolo è che mi pare sempre un po’ “bigotto”, in senso lato. Si fa fatica a includere certe tematiche, a favore di certi innocui background fantastici e distaccati dalla realtà. Nel videogioco non è più così, nel fumetto nemmeno. Anche quando si “gioca” all’interno di un ambiente reale, nel quale si potrebbero toccare argomenti difficili e controversi, si cade nell’astrattismo.
 
Vedi questo gioco Max? Invece questo gioco è un esempio molto interessante. Perché, paradossalmente, con un po’ di fantasia, si può ritenere come un involontario primo passo, dalla semplice esperienza di gioco divertente ma fine a sé stessa, alla diffusione di un concetto.
Max, questo gioco, non è un gioco astratto.
E’ un gioco concettuale.
Con LAS VEGAS facciamo un salto nel futuro e torniamo nel 2012, anno della sua nomination allo Spiel Des Jahres, ottenuto poi dal controverso Kingdom Builder.
Ci facciamo una partita Max?
Ogni giocatore ha un pool di 8 dadi colorati che rappresentano la sete d’azzardo del giocatore/usufruitore del prodotto ludico. Il giocatore è invitato dall’autore a mettere da parte la sua razionalità per caricarsi di impeto e ὕβϱις.
Il protagonista della narrazione/esperienza ludica dovrà spegnere la sua sete di ricchezza recandosi in 6 Casinò, ognuno di essi differente Tòpos del mondo dell’azzardo. Richiamano i tipici luoghi della città americana, con illustrazioni volutamente khitch e inquietanti. Il casinò è sia Locus Amoenus che Locus Horridus per l’usufruitore dell’opera.
Scopo del giocatore è ottenere il montepremi più alto all’interno di ogni casinò. L’autore, Rüdiger Dorn, non è riuscito ad “astrarre” il concetto dell’avidità, se non con il dollaro, emblema della ricchezza coatta.
Il gioco si divide in 4 Round (perché non è stato un numero di Round equivalente ai giocatori? Suppongo che l’autore volesse simbolizzare la “circolarità” della drammatica esperienza della dipendenza da gioco d’azzardo, proprio come le 4 stagioni, o le 4 fasi lunari).
Il primo giocatore del round ottiene la carta primo giocatore. In figura troviamo alcuni personaggi tipici dell’ambiente del gioco d’azzardo: un uomo in camicia bianca e capelli impomatati, accanto a una ragazza che abbraccia i soldi vinti, accecata dalla vana speranza di aumentare quel gruzzolo, tenuto ben stretto. Un piccolo quadro dentro un’opera artistica tout court. Quasi come al cinema.
Il giocatore di turno deve tirare il suo pool di dadi, scegliere un valore fra quelli ottenuti, e posizionare tutti i dadi con quel valore nel casinò corrispondente. Del resto, quando entri nel “tunnel” del gioco d’azzardo, metti tutto te stesso (e tutti i tuoi averi) per rendere onore al Dio Denaro.
Così a giro, fino a quando sono stati posizionati tutti i dadi. A quel punto si verifica la maggioranza per ogni casinò, e i giocatori ottengono il montepremi corrispondente.
Quindi il giocatore è davanti a una scelta importante ad ogni turno: scegliere di porre pochi dadi per trattenere (o meglio, per ritardare) la propria sete di azzardo, o giocare il tutto e per tutto per assicurarsi la vittoria su un casinò, rischiando di rimanere completamente invischiati nella morsa delle slot machine, delle roulette e dei black jack?
E non è tutto. Se all’interno di un casinò sono presenti lo stesso numero di dadi di colori diversi, quei dadi vengono annullati. Cosa rappresenta questa scelta artistica? Rappresenta la totale sconfitta al gioco, la perdita degli averi, le vendette dei creditori. Un finale drammatico e desolante.
Quando giochi a Las Vegas, si sentono i rumori assordanti delle monete e delle fishes, le musiche di Tom Jones, le luci stroboscopiche e al neon. Il tutto con solo un gruzzolo di dadi e delle carte.
I giocatori al tavolo entrano in competizione, si dimenano, s’insultano, patiscono la sfortuna ed esultano. Poi però, alla fine dell’esperienza ludica, escono dal personaggio che hanno involontariamente interpretato, e rivalutano l’esperienza vissuta con occhio distaccato e preoccupato, come se avessero colto il messaggio drammatico che Las Vegas voleva trasmettere.
Quindi questo, Max, non è un semplice gioco astratto. C’è un messaggio, un messaggio profondo, controverso.
Vero Max? No? Forse no. Però è bello pensare che ci sia, e che non è solo un’opera d’ingegno fine a sé stessa, un divertissement per mettere in pratica un uso innovativo delle meccaniche di maggioranza.
In ogni caso, a me Las Vegas diverte di molto, che mentre gioco, riproduco il suono dei Pachinko e muovo il braccio come a tirare impulsivamente una leva da slot machine.
Qualche giorno fa, c’era St. Vincent, quella del primo articolo di “And Benedetto Plays”, a Milano, che però mi sono perso, sconfitto dai malanni autunnali e dalla pioggia incessante. Molto triste. Difficile conciliare tutte le passioni.
Ma chi se ne frega Max! Ci facciamo una partita?

Cordialmente,


Benedetto.

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