Marco AlbertoDonadoni, un nome che non ha bisogno di presentazioni.
Un personaggio
unico nel panorama ludico Italiano (premio speciale alla carriera a Lucca
Comics & Games 2007!), capace di pubblicare più di 180 giochi tradotti in
oltre 6 lingue.
Idee Ludiche non
può che essere onorato di pubblicare questa intervista che l’Autore di perle
come Zargo’s Lords, VII Legio o il recente Assist (solo per citare alcuni tra i
più famosi titoli ) ci ha concesso!
Marco, parlaci
brevemente di te e della tua passione per il gioco da tavola.
Il gioco mi piace
da sempre, fin da piccolo. Il gioco
inteso come coacervo di regole che permettano di passare dal fare brum brum con
la macchinina a una serie di limiti condivisi che definiscano come brumbrummare
in funzione di un certo obiettivo…
Pare che la mia carriera sia cominciata quando, giocando
con mio fratello ai soldatini, continuavo a creare nuove e vieppiù realistiche
regole d’uso per fanti e carri armati, in funzione del fatto che con le
precedenti vinceva lui. Malgrado la mia costante inventiva tuttavia, essendo meno
capace di lui, tendevo a continuare a
perdere sempre, così ben presto compresi che mi piaceva il gioco, mi piaceva
fare le regole, meno giocare: quelle esperienze infantili così traumatiche mi
portarono a diventare persona che tende a rifuggire i conflitti ma ad apprezzare e definire le regole (il che
si potrebbe anche definire come primo esempio autoriferito di formazione
attraverso il gioco).
Ecco, il gioco mi piace
proprio come espressione creativa, mezzo di simulazione e di analisi,
più che come strumento atto a stabilire chi è meglio di chi (e soprattutto chi
è meglio di me). In altre parole, il gioco mi piace ma non mi piace giocare. Questo
potrebbe spiegare, e posso portare le testimonianze, quanti usavano i giochi IT commentando molto spesso: belle idee, ma poco
testate. Eccicredo, se già giocare non mi piaceva pensate che fatica rigiocar tante volte allo stesso
meccanismo…
A mia difesa posso aggiungere che anche i più caustici detrattori hanno spesso
riconosciuto, come detto, che a volte dietro a regole non ineccepibili le idee di base erano buone, e che anche SPI e Avalon Hill,
i riferimenti del tempo, quasi sempre funzionavano dopo la quinta errata
corrige pubblicata.
Quello che mi ha sempre entusiasmato della professione
del gamedesigner è stato pensare soluzioni, proporre idee, inventare modelli
insomma. Del tipo quadrati e ottagoni al posto degli esagoni canonici nei
wargame, o un progetto di spazio in cui ci si poteva davvero perdere come in VII Legio, o
una regola del “non t’arrabbiare” che riuscisse e trasformare d’un tratto un
giocatore normale in uccisore-superpotente-che-crea-angoscia-nei-concorrenti. Tutte
soluzioni innovative che quasi sempre i
soloni del mondo classico ludico hanno sempre giudicato un po’ o tanto blasfeme,
e quindi sbagliate per principio.
Ma si sa: l’innovazione trova molto spesso resistenze
fra gli esperti.
Ho sempre pensato a Magikon
come a un grande prodotto intellettuale;
era un gioco in cui le regole si formavano via via che si giocava, un po’
ispirato alla giurisprudenza del precedente anglosassone. Procedura scarsamente
tuttavia accettata ed amata dal pensiero latino, e infatti Magikon non fu certo un esempio di successo
commerciale.
Con la maturità ho aggiunto a quanto detto sopra: se
possibile nella semplicità più estrema.
Io credo che fare un gioco complicato sia quasi da tutti, un
gioco semplice da eccellenti.
Un buon esempio di quel che sto dicendo potrebbe essere Assist, l’ultimo gioco che ho pubblicato e che Angelo Porazzi (con la sue deliziose
figlie), a conferma della mia scarsa capacità e interesse nell’implementazione
delle idee, ha evoluto in un prodotto commerciale e funzionante... L’idea base –di
cui sono orgoglioso- era semplice e scarna: togliere schemi precostituiti in un
gioco di domande, dando la possibilità
libera di crearle per indovinare una
qualsiasi parola –anche questa non precostituita da nessuna carta o altro- pensata
da un giudice terzo rispetto ai concorrenti. La mia invenzione è stata di
intuire come unico vincolo il non doverle
fare troppo banali perché al proprio turno di “domandatore” o si fa la domanda
o si dà la risposta. Così che potrei anche chiedere “cosa hai pensato?” ma
facendo poi immediatamente vincere l’avversario.
Un gioco fra l’altro
nato in connessione con la necessità di fare sperimentare in aula di formazione
la difficoltà di elaborare domande chiuse e aperte in funzione di diversi
obiettivi di risposta.
Marco con Luca Zaninetti (SlowGame) ed Angelo Porazzi - 2012 - |
A questo
proposito: i primi vent’anni della tua carriera li hai impiegati occupandoti prevalentemente
della realizzazione di giochi, poi sei passato alla formazione manageriale e
relazionale, quale aspetto del tuo percorso ti ha dato maggiori soddisfazioni?
C’è un abituale
fraintendimento nella frase che hai usato. Non è che prima facevo giochi
e poi sono passato alla formazione: io continuo a fare giochi come strumento di
formazione. La differenza è che non vengono più messi in scatola ma in aula. Certo
le premesse sono per alcuni aspetti molto diverse: ad esempio non devo più
preoccuparmi della ripetibilità, ma posso fare giochi monouso. In compenso non
sono orientato a fare cose solo divertenti, ma cose che nel divertimento
sviluppano e mettono alla prova competenze ed abilità ben definite.
Quanto alle soddisfazioni, sono ovviamente diverse ma per
certi aspetti con comuni denominatori importanti. Proprio mentre scrivo queste
righe mi ha chiamato al cellulare uno che (dopo avermi recuperato su internet)
voleva dirmi che trent’anni fa si era molto divertito con Okinawa, e adesso sta cercando qualcuno con cui
giocare a Zargo’s Lord. Un altro che mi ha
scritto da Tokyo, dicendo che si ricorda ancora di VII
Legio… e altri contatti, ancora più gratificanti se possibile, il cui
piacere è implementato dai tanti anni di distanza rispetto a quelle
pubblicazioni.
Dai giochi di formazione ho riscontri più concreti,
immediati, anche perché a fine giornata d’aula ho sempre una votazione/commento
su quanto proposto e sul metodo di proporlo. A volte ricevo feedback anche
successivi del tipo “credo che mi abbiano davvero aiutato a trovar un posto di
lavoro”, oppure “sai che quel gioco di ruolo fatto sei anni fa ancora è il
modello virtuoso delle nostre riunioni…?”. Ora, in tutta coscienza so che i
posti di lavoro o le promozioni non si recuperano attraverso un gioco, per ben
pensato che sia: però mi fa piacere sentire che quelle persone gli
attribuiscono almeno un pezzetto di utilità reale.
Cos’è per te il GAME
DESIGN e come rientra nell’ottica del concetto di formazione?
Come ha detto giustamente qualcuno, un gioco è sempre un
meccanismo che simula qualcosa: la differenza fra progettare gioco
da mercato e gioco da formazione è forse l’inversione dei punti di partenza.
Nel primo caso può essere che si decida come una certa idea/metafora, ad
esempio la conquista del West via ferrovia, sia un tema divertente e markettaro,
quindi si progetta un gioco in cui nell’analisi delle attività si inseriranno
soldi e relazioni fra giocatori per vedere chi è più abile a diventare per
primo un miliardario. Nel secondo può succedere che, partendo dall’esigenza di
mettere sotto analisi le capacità soft di partecipanti all’aula in tema di
relazione e gestione finanziaria, si studi
un progetto di gioco d’aula che usi una metafora utile a questo scopo, ad
esempio la conquista del West via ferrovia.
Un’ ulteriore e significativa differenza sta nel fatto che alla fine del
primo caso ci si accontenta di esser contenti di aver vinto o perso, nel
secondo si deve lavorare su cosa è successo per identificare cosa ha fatto
vincere o perdere.
Per il resto l’approccio al tema è quasi identico.
Analisi: cosa rappresenta il tabellone? cosa sono i
giocatori? qual è l’obiettivo? quali sono le risorse da usare?
Sviluppo: quante mosse può durare? come si coinvolgono
tutti fino alla fine? c’è bilanciamento fra le parti? L’obiettivo scopo del
gioco è raggiungibile?
In più un gioco formativo deve tenere conto di un
elemento importante: che i partecipanti
magari non sono venuti spontaneamente con la voglia di giocare, magari hanno i
loro cavoli in testa, magari odiano il gioco, magari hanno paura di essere
giudicati in base ai risultati… quindi
regole semplici, riferimenti il più possibile chiari a grandi meccanismi noti
(tipo la scopa, Monopoly, la ghigliottina di Conti su Rai1, Trivial e così via)
che non fanno perdere tempo su regolamenti sconosciuti, attenzione – se è
quello il caso- a spiegare che non si gioca per vedere chi è più bravo ma per
aiutarli a crescere insieme, anche scontrandosi fra loro.
Hai vissuto
praticamente tutti gli aspetti del mondo del gioco, dall’autoproduzione a
quello giornalistico fino al radiotelevisivo, dall’alto della tua esperienza
che futuro vedi per il mondo del gioco in scatola?
Siamo in una civiltà che vive i cambiamenti in
progressione geometrica: io sono nato che non c’era ancora la televisione, oggi
il supporto tipico più diffuso del gioco è lo smartphone, che a sua volta è solo parente alla lontana dei
telefonini di 10 anni fa, e probabilmente non lo sarà per nulla dei prodotti
usati da giovani e vecchi fra cinque anni.
Ho visto nascere i videogiochi, sentire dire che il gioco
da tavolo era finito, vedere aziende travolte dalle nuove tecnologie o
trasformate dalle stesse, rinascere nuovi modelli di socializzazione e di
microeditoria, giocare nel net a specie di risiko in tempo reale e fra
giocatori di diversi continenti, svilupparsi concetti come l’autoproduzione
figlia dell’innovazione tecnologica, locali ludoteche chiudere e altri riaprire
come internet ludo point. Oggi noto da una parte una grande voglia di tornare
alla socializzazione (ogni weekend c’è una fiera o un evento legato al gioco),
e dall’altra vedo ad esempio un prodotto come ruzzle che nasce come scarabeo
per cellulare, ipoteticamente pensato per pubblici allargati, che è passato
oggi a rafforzare il contatto fra gente che si conosce, e che gioca per il
piacere poi di telefonarsi per
commentare vittorie e sconfitte. O che lo fa stando spalla a spalla, ma via
telefonino.
La scatola non è che uno strumento che cambia col tempo –
prima di Gutemberg le carte non esistevano-, solo che nel nostro tempo il cambio è incredibilmente
veloce.
Quel che mi pare di vedere come elemento di continuità è
la permanenza della voglia di stare insieme anche attraverso il gioco, magari
sviluppato un po’ meglio nel prossimo futuro: non sarebbe poi la naturale
conseguenza/evoluzione del concetto di social network?
Ti va di parlarci de
“La borsa dei 100 attrezzi”, di “MAD” e dei progetti futuri che hai in
cantiere?
Anzi, la ringrazio della domanda, come dicono i politici
assennati. MAD è figlia della P.F.I. (Premiata Fabbrica di Idee) e nasce
quando io e il mio storico socio Matteo
Rosa decidemmo di prendere strade diverse.
P.F.I. era cominciata con
l’idea di lavorare nel gioco in scatola e poi si era allargata a tutto il
panorama ludico per arrivare alla
formazione manageriale. MAD
nasce dalla formazione manageriale e sta puntando attraverso la creazione di
percorsi-gioco a lavorare nel sociale. Ad
esempio “La borsa dei 100 attrezzi” è un progetto di sviluppo ideato per
popolazioni a cui nessuno pensa di fare formazione relazionale (studenti,
cassintegrati, oggi anche immigrati con piccole realtà lavorative regolari,
donne che cercano di rientrare nel lavoro dopo la maternità…), e di farlo
attraverso una teoria molto semplice e un’esperienzialità legata al gioco a
360°, cioè da tavolo, di movimento, di costruzioni, di ruolo, di narrazione.
Un altro progetto in cui sono molto impegnato in questi
giorni è GameMT®, un master post
universitario dedicato a formatori e docenti che vogliono imparare quante facce
ha il concetto di gioco e quante possibilità offre nella consulenza personale. In
un’ottica finale di aiutare questi professionisti a progettare da sé i loro
giochi formativi. Tra l’altro è un progetto frutto di una collaborazione molto bella fra
un sacco di utenti-docenti di gioco e
formazione quali Arnaldo Cecchini, Luisa Salmaso, Piermarco Rosa e tanti altri, fra i quali soprattutto devo citare
in maiuscole il mio co-curatore Domenico di Giorgio. Con loro abbiamo
scritto un libro, “Keiron - l’uso del gioco nella
formazione”, che è diventato il testo guida per questo master, presentando
tutti gli aspetti, anche i più imprevedibili- del gioco inteso in senso
didattico. E col formidabile aiuto della Community
della Formazione Esperienziale, che nella persona del suo leader Daniela Fregosi sta facendo molto per
la diffusione del concetto di gioco utile - oggi quelli fighi lo chiamano
Serious Game - e nello stesso tempo per la diffusione del mondo del gioco tout
court.
Ma magari questo non facciamolo troppo notare: come
diceva Dossena, il gioco è comunque circondato dal discredito, non vorrei che
se lo ricordassero anche i formatori…
Bene, a
conclusione di questa piacevole chiacchierata un doveroso GRAZIE va a Marco per
la grande disponibilità e simpatia che ha dimostrato rispondendo alle nostre
domande, permettendoci così, grazie alle
sue esperienze ed opinioni, di far comprendere agli appassionati di tutto ciò
che è ludico che il gioco PUO’ e DEVE anche essere mezzo di formazione e
crescita oltre che di “semplice” divertimento!
Grazie e alla
prossima! :)
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